09 Gen Job-Shadowing in Uruguay, un racconto di viaggio.
Quello che segue è un racconto di Dario Landi, uno dei quattro partecipanti al job-shadowing in Uruguay organizzato da Beecom grazie al Progetto CIYOUTH.
L’aereo che da Buenos tiri ci riporta in Europa è silenzioso. Qualcuno guarda un film, qualcun altro sonnecchia, un bambino si agita sulle ginocchia del padre, indeciso il dormire o svegliarsi e piangere. D’un tratto, però, si accende l’interfono e la voce del capitano gracchia qualcosa in uno spagnolo incomprensibile. Un attimo dopo i passeggeri esultano in un furore di fischi e applausi.
Io e Giada ci guardiamo senza capire, anche un po’ preoccupati. La scena si ripete pochi minuti dopo, e a quel punto si svegliano, due sedili più in là, anche Ettore e Noemi.
Io, Dario, Giada, Ettore e Noemi, siamo i quattro che, nell’ambito del progetto CYouth, grazie all’associazione Beecom, siamo partiti dall’Italia, da Firenze, dal Mugello, in realtà, per uno scambio interculturale in Uruguay.
Ettore e Noemi, comunque, parlano spagnolo, capiscono in un attimo cosa è successo: “ha segnato l’Argentina”.
Dieci giorni prima, a San Javier, in Uruguay, un paesello sulle sponde del mastodontico Rio Uruguay, il fiume che segna il confine fra l’Argentina e il suo piccolo vicino, Horacio e gli altri nostri accompagnatori, guardano frenetici il telefono. Sta giocando l’Uruguay. Nonostante questo la loro accoglienza è, come sempre nei dieci giorni che abbiamo passato in questa che loro, con malcelato orgoglio, chiamano la “Svizzera del Sudamerica”, ottima. Ci guidano attraverso il sonnolento e assolato paese. Il cinema, la chiesa, l’impianto di depurazione dell’acqua, lo stupendo parco naturale.
Siamo in Uruguay da ormai una settimana. Abbiamo visitato dapprima Fray Bentos, capitale del dipartimento di Rio Negro, e poi ci siamo spostati a San Javier. San Javier è uno strano esempio di intercultura. Fondato da immigrati russi nel 1913, oggi è un luogo dove tutti parlano spagnolo, si considerano uruguagi, ma portano cognomi russi, i ristoranti servono borsch e insalata russa, e dove nel corso degli anni, si è fatto un profondo lavoro di recupero delle radici russe, culminante nella bella esposizione della sala comunale, che presenta una collezione di oggetti di vita quotidiana dei primi anni della comunità: libri di testo scolastici, giornali in cirillico, foto di pionieri che scavano pozzi, mietono il grano.
L’intercultura, in Uruguay, c’è ma non si vede. Almeno non con uno sguardo disattento, bisogna focalizzarsi, concentrarsi.
A Fray Bentos visitiamo la “Cucina del Mondo” una fabbrica di carne in scatola grande come una piccola città, tanto importante che durante la seconda cuna mondiale i tedeschi cercarono di farla esplodere, tanta era la carne che mandava in Europa per sfamare i soldati alleati. E ci sarebbero anche riusciti, se non si fossero messe in mezzo le spie sovietiche. La fabbrica, chiamata anche “El Anglo” per via dei suoi padroni inglesi, vide lavorare al suo interno, per decenni, italiani, spagnoli, tedeschi, polacchi, portoghesi, greci, russi, cileni, inglesi, brasiliani, e via andare, gente da tutto il mondo, oggi rappresentata da un lungo festone raffigurante, all’interno di un murales, tutte le bandiere di queste nazionalità. La fabbrica oggi è in parte uno stupendo museo di archeologia industriale, e in parte, in quelli che erano gli alloggi degli operai, un’università tecnologica, la UTEC, fiore all’occhiello del sistema educativo uruguagio.
Anche l’università ci viene mostrata con orgoglio: laboratori di robotica, biodinamica, logistica, attraverso cui sciama un continuo flusso di ragazzi che chiacchierano, studiano, scherzano con una vitalità enfatizzata dalla stupenda giornata di sole e vento che fuori increspa la superficie del Rio Uruguay.
Alcuni di questi ragazzi li abbiamo ciò incontrati, il sabato precedente, al laboratorio che il nostro ospite (parola riduttiva) Horacio aveva organizzato per noi.
Un’intera giornata in cui i ragazzi di Fray Bentos dovevano esporre e progettare le loro idee d’impresa. Noi, stanchi dopo il lungo viaggio d’andata, siamo rimasti colpiti dall’abnegazione con cui i ragazzi si sono dedicati a scrivere, discutere, risolvere problemi per un’intera giornata, sforzandosi anche di coinvolgerci e di renderci partecipi, per quanto fossimo soltanto “di passaggio”, nel loro lavoro.
Ci hanno impressionato. E, guardando dal finestrino ora che le urla di gioia degli argentini stanno scemando, ci ripenso e mi rendo conto che lo stesso vale per tutto l’Uruguay.
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